Storie di discriminazione – Parte I

Questo mese le nostre voci sono state le vostre. Le storie che leggerete sono brevi, lunghe, dolorose, sofferte storie di discriminazione. Alcune sono confessioni, altre sono macigni sul cuore, altre ancora sono tristi tasselli di quotidianità. La discriminazione l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle, siamo statə testimoni, l’abbiamo perpetrata; a volte, non siamo statə capaci di riconoscerla. Questo è ciò che ci avete raccontato.

Lavoro nell’ambiente della ristorazione da tanti anni, e se c’è una cosa che ho potuto toccare con mano lavorando nelle cucine in mezzo a tanti uomini, è il maschilismo tossico che impregna ogni angolo della stanza. Se sei una donna in cucina devi lavorare il triplo per farti riconoscere un terzo del tuo valore; se sei una donna ci sono le battute continue sul tuo non essere uomo, sulle tue capacità che sono sicuramente meno sviluppate, perché la cucina è un ambiente di maschi. Per questo motivo, nel corso di questi anni, ho vissuto numerose esperienze di discriminazioni in quanto donna tra gli uomini nei ruoli di potere. Potrei raccontarne tante, ma la prima che mi viene in mente è quella del boss che mi dice di prendere “quella” pentola e io non capisco quale pentola intenda perché, in realtà, non specifica quale. Quindi io mi inchino, allungo la mano per prendere la prima pentola che vedo, e lui con una risatina di scherno mi dice : “vabbe’ che tu sei femmina e non capisci”. Io gli rispondo: “già di primo mattino?”. Lui non dice niente, ridacchia. Perché fa ridere, fa ridere perché è vero. Non c’è da prendersela.

F.


Mi chiamo Stefania e sono una donna grassa. Per tanto tempo l’aggettivo grassa è stato per me un insulto, una vergogna, un marchio di cui mi sarei voluta e dovuta liberare. Sono sempre stata grassa da che io ricordi, non ho mai visto il mio ventre piatto, proprio mai. In infanzia ero la classica bambina un po’ paffutella, ma la bambina paffutella va bene alla fine, fa colore e simpatia. In questo modo sono entrata alle elementari carina e paffutella; tra la terza e la quarta ho avuto il mio peso più alto da bambina, almeno credo, o comunque quello è il periodo in cui le foto mostrano che ero più tonda e non sembravo più una bambina dolce e paffutella. In quel periodo, per la prima volta venivo portata da un dietologo, avrò avuto 8/9 anni, non saprei dire con precisione. Per la prima volta venivo esaminata da un medico e mi venne prescritta una dieta, con la privazione di merendine e tutte quelle cose che amano i bambini; io chiaramente ero molto arrabbiata, era un’ingiustizia non poter mangiare ciò che mangiavano i miei compagni. Tutt’ora penso sia una follia, nel senso che nessun bambino può comprendere attivamente certi tipi di restrizioni. Non so se fino a quel giorno avessi mai pensato al mio corpo come problematico e sbagliato, credo che nella sala d’attesa del dietologo fossi molto confusa del perché fossi lì, ma cominciava ad annidarsi la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, solo dopo ciò ebbe un nome: il grasso. Da quel momento l’aggettivo grassa acquisì per me un’accezione negativa. Prima di allora non ricordo di essermi sentita a disagio nel mio corpo, ma dal giorno, nel sentirmi rivolto quel commento, sentivo di non essere giusta e che dovevo essere diversa… i confronti poi sono stati frequenti. Mia madre spesso elogiava lo stato fisico e le abitudini alimentari di bambine più snelle e ciò non faceva che farmi sentire sbagliata. Qualcuno potrebbe facilmente pensare che mangiassi male (sicuramente non ero un’amante delle verdure) e che fossi una bambina pigra. Eppure ho provato diversi tipi di sport: il basket, il nuoto, il ballo latino americano. Tutte esperienze finite in breve tempo, perché ero pigra? Per lungo tempo ho avuto questa narrazione di me data dalla mia famiglia e introiettata, poi però, più in là con il tempo, notai come l’interruzione delle esperienze sportive fosse sempre successivo alla notizia di non poter partecipare a partite, gare, saggi, spettacoli. Era come se non potessi vedere realizzati i miei sforzi sportivi, per cui disinvestivo e provavo a passare ad altro e alla fine mi sentii sempre meno motivata.

Alla quinta elementare risale il vero primo ricordo relativo  all’essere stata insultata in quanto grassa. Un bambino della mia classe, molto magro (e che forse viveva il suo essere mingherlino come io cominciavo a percepire il mio corpo) nel litigare con me, per non ricordo bene cosa, mi disse le parole “tu sei grassa!” con tono dispregiativo . Io da bambina calma e pacata non esitai a dargli un pugno in faccia. Chiaramente la violenza non è giustificata, ma da bambini mancano molte consapevolezze e ragioni; ma quelle parole per me furono come un pugno nello stomaco e così lo resi. Dopo la quinta elementare mi sviluppai velocemente, all’inizio della prima media ebbi le prime mestruazioni e abbastanza rapidamente il mio corpo di donna cominciò a mostrarsi, la mia statura aumentò e mi allungai rendendo meno palese la presenza di grasso, questo forse nella mia mente mi permise di sentirmi meno fuori luogo, anche se non smisi mai di essere “la bambina più grassa”. Alle medie sono iniziati anche i primi “intrighi” amorosi non senza danni. Dopo il primo bacio datomi con un compagno sotto casa, come tutte le ragazzine ero eccitata da quell’avvenimento, entusiasta all’idea, al tempo ovvia, di essermi fatta il fidanzatino o che un amore stesse nascendo; andai a scuola il giorno dopo e lo sentii parlare male di me, che ero brutta e grassa…non ricordo di preciso se negasse fosse successo o se fosse una cosa di poco conto; fatto sta che ci rimasi proprio male. Tra l’altro pure lui era un ragazzino grasso, forse anche più grasso di quanto lo fossi io in quel momento, ma in un qualche modo risultava essere una caratteristica peggiore per me che per lui. Per tutte le medie ci fu comunque un continuo odi et amo con questo ragazzino, lui ambiva alle compagne più carine e che a uno grasso probabilmente non erano troppo interessate, e io ero la compagna più  grassa, quindi più alla portata, come lui che però ci stava quindi poteva andare in giro a dire che aveva dato due limoni ma nel frattempo poteva continuare a schernirmi un pochino. Il mio status di ragazza grassa era più pesante del suo.

All’inizio delle superiori ero sempre una ragazzina grassa, ma sono stata una slimfat; non perché ciò sia meglio, ma sicuramente mi ha parato il culo da rotture di scatole maggiori. Ho avuto un primo fidanzatino durato qualche mese, per poi iniziare un altra frequentazione con un suo amico (senza saperlo). Dopo un po’ di messaggi e qualche uscita romantica troncò con me sostenendo fosse tutto uno scherzo e che lui sennò non sarebbe mai uscito con una come me (grassa e brutta). Per quanto avvilita da ciò non ho mai troppo creduto al suo far finta…ma non è importante.

Uno degli ambienti in cui ho sofferto maggiormente la pressione sul mio corpo è stato in casa. Come ho detto, appena possibile, appena smisi di essere una tenera bambina paffuta, fui portata da un dietologo. C’è sempre stata un’attenzione per le dimensioni del mio corpo, e le battute in generale sul peso, anche non mio, erano un qualcosa di onnipresente. Figlia del fatto che mia madre avesse un diploma da estetista, la sua attenzione sul corpo era molto presente. Non sono mai stata abbastanza magra e ciò mi veniva fatto pesare continuamente e quando sono aumentata di peso mi erano rivolte frasi come “quando eri magra”, cosa che non era mai successa, ero sicuramente stata meno grassa ma, come ho accennato, il mio ventre non è mai stato piatto. La mia pancia ha sempre fatto dei rotoli, rotoli che ho odiato con tutta me stessa, che ho pensato, sognato, bramato di tagliare con delle forbici…una volta le ho prese anche in mano…se non avessi avuto paura forse avrei provato a liberarmi di quei rotoli. Ricordo l’angoscia di volere far fuori una parte di me, le lacrime e la sensazione di non aver alcuna via di uscita, l’impossibilità  di poter essere accettata per intero. La pancia è sempre stato il mio dilemma maggiore, è la parte dove il mio corpo accumula la percentuale più  alta dell’adipe, forse poi ho odiato anche un po’ le braccia, anche se un po’ più in là nel tempo. Poi, ad essere sinceri, mia madre (che dal suo punto di vista pensava di fare del bene, ma non l’ha fatto) non mancava di farmi osservare altri numerosi difetti relativi al mio essere grassa, le mie cosce che si sfregavano (come se non ci fosse una soluzione pratica), i miei polpacci non fini ma che, ad essere sincera, non sono mai stati deposito di adipe, semplicemente erano grossi di costituzione (non essendo mai stata una persona largefat, non ho mai avuto grasso lì). Piano piano quasi il mio intero corpo divenne passibile di critiche, c’era sempre qualcosa che non andava bene…non le andava bene. Se ci penso, io non arrivavo mai ad avere un problema con una data parte di corpo prima che questa mi fosse messa sotto un riflettore e piano piano fossi portata a osservarla minuziosamente e a odiarla e sempre di più a odiarmi, più o meno consciamente. Piano piano nella mia testa aumentavano i pezzi che dovevo odiare e che sarebbero dovuti essere diversi.

Più volte nel corso della mia vita mia madre mi comprava degli indumenti (che non avevo provato) di taglie più piccole. Non credo lo facesse di proposito, credo semplicemente sperasse mi stesse una taglia minore, perché per lei e poi successivamente per me, stare in una S piuttosto che in una M, o in una M piuttosto che in una L era MEGLIO. Tutto ciò dimenticandosi totalmente delle dimensioni del mio corpo. Questo comportamento chiaramente mi è stato trasmesso. Non scorderò mai quando in seconda superiore entrai in un negozio per comprarmi dei jeans e ne uscii contenta con un paio di jeans taglia 42. La sensazione di gioia di tornare a casa e dire che stavo in una 42, peccato che ci stavo a malapena, quei jeans erano talmente stretti che a fatica respiravo in piedi, figuriamoci sedercisi…quei jeans sono ancora in casa di mia mamma, in un armadio, con ancora l’etichetta attaccata. Non li ho mai potuti usare, non sono mai scesa di peso e taglia per farlo, non li ho mai resi perché da qualche parte mi dicevo che sarei dimagrita e di conseguenza sarei potuta essere felice, perché  è sempre stata questa l’equazione (magra=felice). Per me quei jeans sono simbolo della pressione che avevo nel stare in un numerino stupido, che ha prevalso sullo stare bene in un indumento.

Oggi sono una donna grassa sicuramente diversa, ma non è da tanto che del numerino me ne frego, in realtà non so ancora se sono del tutto immune dalla pressione, mi sono sicuramente allenata  mentalmente a non esserlo, comprando effettivamente solo ciò che mi sta bene, senza prestar conto alla taglia che devo indossare, ho cominciato anche a comprare vestiti per donne “curvy” (perché dire per donne grasse ancora pesa troppo) online. Quel numerino ha ancora dell’influenza su di me, però a volte inizio a provare da taglie più grandi per poi scendere, avendo paura di non stare e quindi di rimanerci male, così in maniera preventiva. Se penso ai momenti nel camerino, negli anni ho un vago senso di tensione, la paura (che diventa certezza) di non starci, la difficoltà a trovare la taglia, le taglie che non corrispondono ad altri negozi ma che ti fanno sentire comunque inadeguata, non è l’indumento sbagliato, SEI TU! Quando, più volte, è capitato di uscire dal giro shopping senza nulla era un fallimento che evidenziava il mio non essere giusta. Qualche volta mia madre mi ha pure consolato da quello sconforto, anche se poi il succo, non sempre esplicito, era che dovevo migliorare, dunque dimagrire, ovvero ero io il problema, mia madre si convinceva che ce l’avrei fatta.

L’ansia numerica ovviamente non è circoscritta unicamente al numero sul cartellino, un altro numero del demonio è quello della bilancia, mia madre aveva sempre una bilancia a casa e provava a farmi pesare spesso e io la odiavo (la bilancia, anche se ciò non mi ha aiutato nel rapporto con mia madre). A volte sembrava la buttasse anche a gioco tipo “dai mi peso io e ti pesi tu, lo facciamo insieme”, non mi è mai piaciuto come gioco, ho perso fin troppo spesso. E quando tentavo di sottrarmi ero pressata per salire, a volte addirittura rincorsa, come se fosse un dovere farlo, come se quel numerino dovesse dirmi qualcosa di me stessa. Non ho idea da quanto tempo io non salga sulla bilancia, da più di un anno sicuramente. Ho deciso di non farlo perché ho paura di vedere quel numero (non necessariamente perché sia salito), e di stare male, ho paura del potere che quel numero ha su di me, ho paura di ricadere in un vortice di pensieri negativi e dispregiativi verso me stessa, di darmi un valore per uno stupido numero, non voglio minare il mio stare bene con me stessa. Sento che non farlo per me sia fondamentale, e non perché non mi prendo cura di me stessa (come i migliori grassofobici potrebbero pensare) ma proprio perché lo faccio. Non sono un numero, lo so, ma togliere a questi numeri il potere che hanno su di noi non è facile. Uscire dal circolo dei pensieri grassofobici, che tutti abbiamo interiorizzato e che nemmeno ci accorgiamo di avere, è difficilissimo. Entrare in contatto con la body positivity e i movimenti preconnessi del femminismo mi hanno aiutato e mi stanno tuttora aiutando a vivere con maggior consapevolezza e serenità il mio corpo e il rapporto con gli altri corpi intorno a me.

Stefania

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...