Storie di discriminazione – Parte II

Questo mese le nostre voci sono state le vostre. Le storie che leggerete sono brevi, lunghe, dolorose, sofferte storie di discriminazione. Alcune sono confessioni, altre sono macigni sul cuore, altre ancora sono tristi tasselli di quotidianità. La discriminazione l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle, siamo statə testimoni, l’abbiamo perpetrata; a volte, non siamo statə capaci di riconoscerla. Questo è ciò che ci avete raccontato.

Io che di loro non ho mai avuto paura

Gli occhi addosso li ricordo da quando mi sono tagliata i capelli per mia scelta per la prima volta, quando con la nuca rasata e una spazzola sulla testa cominciai finalmente a somigliare alla persona che mi sentivo di essere. 

Era estate ed ero abbronzatissima, indossavo sempre gli stessi jeans corti strappati male, un basco e le magliette degli Shandon, non portavo il reggiseno, avevo le cosce
grandi, le tette piccolissime e la pancia piatta con la V. Avevo sedici anni e la stessa faccia che ho ora, solo più tonda e con qualche ruga in meno ai lati degli occhi.

Quando la gente per strada, sull’autobus, alla fermata, al cinema, a scuola, si domandava con lo sguardo o a voce alta se fossi ‘maschio o femmina’ non mi offendevo. Anzi: anche se ancora non lo sapevo bene, mi sentivo in entrambi e in nessuno di questi modi, ero femmina ed ero maschio ed ero la persona tra e oltre questi due. Mi piaceva pure, confondere la gente, mettere allo scoperto la sua morbosa
curiosità riguardo al mio genere, osservarla vacillare mentre quelle inutili certezze si sgretolavano; il più delle volte li compativo, perché io mi piacevo e camminavo bene dentro il mio corpo e invece loro stavano a guardare me per darmi un nome, senza sentirsi mai a posto nel proprio.

Mi succede ancora adesso, soprattutto quando sono in compagnia di persone dall’aspetto più ‘femminile’ del mio: è tutto un «sono subito da voi, ragazzi» o «il prossimo è quel ragazzo con il cappello.» Poi, a volte, capita che tornino e mi guardino ancora, intravedano qualche tratto che rientra nella loro idea di ‘femmina’, e allora esclamano: «Ah ma sei una ragazza! Non avevo capito, con questo taglio rasato che hai.» Si scusano pure e arrossiscono in faccia.

Quello che non mi ha mai divertito sono stati gli innumerevoli «ma ita funti?» pronunciati con scherno dagli uomini in fila al supermercato o appoggiati al bancone del bar, i «dai e daglielo un altro bacino alla tua amica» delle cricche nelle piazze, i «lesbiche!» lanciati come sputi dai motorini, i «mi’ mi’, c’è quella che corre dietro alle compagne di classe» delle insegnanti di religione, e così via. Sono passati quindici anni da quando ho preso per mano una ragazza in pubblico per la prima volta, ero poco più che una bambina e di loro non ho mai avuto paura. Ricordo da sempre la rabbia; ricordo ogni mia risposta che diventava scudo e lama, ricordo le loro facce vuote e stupite, perché una reazione non se l’aspettavano mai; ricordo l’orgoglio nel dire che io a ballare andavo al Go Fish e non al Lido, ricordo quelle due signore che minacciarono me e la mia ragazza di allora sull’autobus avvisandoci con tono ostile che a riprendere i nostri baci ci fossero le telecamere; ricorderò per sempre quel signore gentile che scese dal pullman proprio in quel momento e che disse: «Continuate a scandalizzare!» Ricordo anche il senso di colpa, perché se fossi stata zitta non avrei messo in pericolo la persona vicina a me, perché se avessi imparato a non rispondere a tono non avrei rischiato anche per lei che non avrebbe voluto lo facessi, non avrei scelto io per entrambe di esporci come due che non subivano. Pensavo: se ci picchiano, tuttə diranno che è stata colpa mia perché ho risposto, perché ho mandato a fanculo uno che potrebbe essere mio padre, due che potrebbero essere mie nonne e una mandria di gente della mia età che avrebbe dovuto difenderci. Pensavo che ogni volta era uguale a quella precedente, che nulla cambiava, che la mia città era piena di viscide vipere, e sentivo che piano piano quella pietra che avrei scagliato contro il loro disprezzo si faceva più dura e affilata.

Sono cresciuta e la rabbia ha cambiato forma, pure se non ho mai smesso di reagire, non ho mai imparato a fare finta di niente e a ingoiare il dolore. In mezzo ci sono stati
anni di  soddisfazioni e di umiliazioni, le manifestazioni contro l’omofobia e i pride in Sardegna; ci sono state centinaia e centinaia di nuove famiglie, come la mia, educate all’amore e al rispetto; ci sono stati nuovi locali queer e più bandiere arcobaleno; sono nati i social network, che permettono a storie apparentemente lontanissime di avvicinarsi; una volta all’anno, a Cagliari, c’è addirittura un festival che fa raccontare le lesbiche, scrivendolo bene su manifesti giganti che chiunque può vedere quando sta in fila al semaforo. Tutto questo non basta, però, perché non esisto solo io. Non ho idea di cosa voglia dire avere quindici anni nel 2021 e non do per scontato nulla. Non è più facile perché prima era più difficile: la battuta sui caghineri al pranzo di natale, i ricatti che vogliono mettere a tacere l’amore per noi stessə e la nostra identità nel nome di una presunta pace familiare, le minacce di essere sbattutə fuori di casa, i silenzi e gli insulti, le umiliazioni, le botte e gli abusi sono violenza oggi come lo erano ieri e lo saranno domani.

Eppure, non siamo solə: tu hai me, io ho te, circondiamoci di persone che ci amano. Siamo orgogliosə delle nostre scelte di felicità. Coltiviamo rispetto per noi stessə e per chi ogni giorno deve lottare per affermare il proprio diritto di esistere, per chi lo fa in silenzio e per chi urla. Abbiamo ragione, armiamoci di coraggio. Continuiamo a scandalizzare!

V.


Il paese

Sono cresciuta in un piccolissimo paese in cui non mi sono mai inserita. Non mi sono mai sentita parte della comunità,  mi sono sempre sentita diversa. Ho odiato le persone del mio paese, i miei compagni e le mie compagne di classe, con qualche rarissima eccezione.

È difficile vivere in un paese piccolo quando vuoi sentirti libera e soprattutto quando ti senti diversa. 

È difficile quandohai 13 anni e non ti piace la musica che piace a tutte le altre persone che ci sono nella tua classe, quando hai i capelli gonfi e senza forma perché non hai la piastra, e una tua compagna ti fa notare che se ti facessi la piastra saresti pure carina. È difficile anche una cosa semplice come il vestirsi. Il giudizio degli altri è una costante in un posto come quello in cui sono cresciuta. Le persone decidono chi sei e cosa fai anche in base a come ti vesti, le voci si spargono, le persone credono a tutto e nel giro di poche ore puoi diventare una drogata, bagassa o in dolce attesa senza neanche saperlo.

I giudizi e le parole fanno sempre male, ma nella pubertà e nell’adolescenza colpiscono come coltelli. Nell’età in cui sei più insicura di te stessa, in cui ti odi, in cui hai paura di mostrarti succede che hai costantemente tutti gli occhi addosso. Non sono entrata nel bar del mio paese fino ai 20, anni, forse anche più tardi, perché non mi sentivo a mio agio.

È ancora più difficile essere una ragazza e vivere in un paese piccolo, quando sei una bambina e inizi ad accorgerti da un giorno all’altro che lo sguardo di un anziano indugia su di te un po’ troppo a lungo, quando qualche anno dopo magari prendi coraggio e indossi una gonna e un ragazzo molto più grande di te, che ti conosce benissimo e sa chi sei ma con il quale non hai mai parlato, inizia a farti dei versi dall’altra parte della strada, come se chiamasse un gatto, e allora pensi che non era il caso di metterti in gonna e che comunque quel tizio lo odierai fino alla fine dei tuoi giorni.

In un paese dove le persone intorno a te, uomini e donne, sono aggrappate a standard trogloditi di donne che sono vere donne quando si comportano in un certo modo, quando stanno a casa a fare le pulizie, dove ci sono madri che insegnano alle proprie figlie che è compito loro fare il letto a tutta la famiglia, cucinare e lavare i piatti perché così sono pronte per quando si sposeranno.

Ci ho messo anni ad accettare me stessa, a fregarmene del giudizio delle persone con le quali non ho nulla a che fare, a superare quell’immagine che avevo sempre avuto di me. Quando ero molto piccola giocavo con i maschi e facevo molte cosiddette “cose da maschio”, quando sono cresciuta ho avuto prima una fase hip hop in cui indossavo magliette e pantaloni larghi, dopo di che ho avuto il mio periodo punk/dark . In tutti quegli anni, i maschi, e le cose che nella mia testa erano da maschio, mi sono sempre sembrate più fighe. La musica che ascoltavo era dominata dagli uomini, non avevo modelli femminili, mi sembrava che le cose da ragazze fossero troppo superficiali, vezzose e mi davano un senso di debolezza. Ero contenta quando mi dicevano “tu non sei come le altre ragazze”. È stato difficile liberarmi da tutti gli stereotipi, ma ancora oggi per esempio cerco di non piangere davanti alle persone perché non voglio sembrare debole. Sono insicura di me, lo sono sempre stata, ma ho imparato a far finta che non sia così anche quando dubito di tutto ciò che faccio e non mi sento all’altezza.

Ci sono voluti anni anche per accettare il mio aspetto fisico, non mi è mai piaciuto, non mi sono mai trovata bene dentro il mio corpo e so bene che è una cosa comune a molt*
adolescent*, siamo cresciut* con dei modelli irraggiungibili di bellezza, in costante confronto con le altre persone, fin dalle scuole elementari quando i bambini facevano la classifica delle più belle della classe e viceversa.

Fortunatamente nella vita ho conosciuto persone affini con le quali ho sempre potuto essere me stessa senza sentirmi fuori posto o sbagliata. È soprattutto grazie alle amicizie e all’essere andata via dal paese se oggi non mi preoccupo più di come mi vedono gli altri, di quello che pensano di me o di quello che dicono.

E. D.


Nella mia classe dominata da ragazzi noi ragazze ci siamo sempre volute bene. Meno male che eravamo poche: le ragazze, si sa, sono pettegole e litigano sempre tra loro. Non sarebbe stato lo stesso alle Magistrali, di cui sentivamo sempre tante storie.

I nostri compagni non ci prendevano in giro quando giocavamo a calcio o quando a Claudia sono venute le tette grosse. Ma c’era anche quella ragazza carina a scuola, che aveva sempre un sacco di corteggiatori attorno e che chiamavano troia.

«Com’è andata oggi?»

«Lascia stare, oggi la prof era mestruata»

«Sarà da molto che non scopa

Anche questo sentivo e ripetevo, senza rendermi conto che quelle parole le stavo rivolgendo anche a me. Inclusa nel mio piccolo privilegio, perpetravo anche io quelle piccole angherie che sin da piccole le donne cominciano a subire. Pensavo che non avevamo bisogno di difenderci: non lo sapevo ancora che quella battaglia era anche la mia, che più tardi un altro ragazzo avrebbe ridotto il mio malessere a degli ormoni in subbuglio, che esprimendo la mia bisessualità avrei ricevuto un sorriso ammiccante di chi si immaginava cosa mi piaceva e cosa no.

L’ho capito poi, quando a scuola guida l’istruttore con me sbuffava sempre, mentre ai maschi rivolgeva sguardi complici. Io, che ero una grande insicura, mi sentivo così a disagio che spesso in macchina prendevo la sinistra quando mi chiedeva di girare a destra, e così ero io a offrirgli la conferma dell’antitesi naturale di donne e motori. Pure questo si sa, donna al volante pericolo costante.

Qualche anno dopo sempre io, che vittima non mi sono mai sentita, ho dovuto correre fino allo sfinimento per seminare un uomo che tentava di molestarmi.

Le ingiustizie iniziano sempre da cose di poco conto, frasi superficiali di cui si ride nei corridoi di scuola.

C.

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