
I ragazzini in bicicletta in due, uno sul sedile e uno sul cavallo, che traballano e ridono; le signore con i fiori sotto il braccio, i pacchi nel cestino e i tacchi sui pedali mentre al semaforo aspettano che le barche passino sotto il ponte sollevato, e la lunga fila dietro di loro; le manifestazioni oceaniche al Nelson Mandelapark e in piazza Dam, l’energia che emanano decine e decine di migliaia di persone diverse che si incontrano nello stesso posto per lo stesso motivo, la potenza di tante voci che insieme ne fanno una sola; nelle sere d’inverno, la luce arancione e rossastra dei forni accesi fuori dalle rosticcerie che si riflette sul cemento bagnato e sulle cassette di frutta e verdura; i libri già letti da qualcunə lasciati per qualcun altrə sugli scaffali in giro per il quartiere, e i mobili e i giocattoli portati sotto casa per chi voglia dar loro una vita nuova; le donne con l’hijab e il giubbottino catarifrangente che imparano ad andare in bicicletta la domenica mattina, quando c’è poco traffico; la lentezza del risveglio dal fine settimana, Amsterdam silenziosa e assonnata ogni lunedì; il sapore del cous cous quando lo prepara un ragazzo nato a Rabat; l’aria tersa di certi giorni invernali di sole sui canali; il movimento indipendente, queer, intersezionale che si oppone al pride ufficiale della città, capitalista, bianco, transfobico e abilista; gli incontri settimanali per leggere e scrivere e chiacchierare in olandese tra stranierə; i bambini che giocano e tornano a casa da soli, come succede da noi ormai solo nei paesi; la terrazza del mio coffeeshop preferito e le signore che lo gestiscono con quell’aria sempre gentile; il Prostitutie Informatie Centrum nel cuore di De Wallen, le fattorie didattiche cittadine e le sedie attaccate all’esterno delle case, una di fronte all’altra; la vita nei parchi in qualunque stagione, il traffico di biciclette a tutte le ore che non ti fa mai sentire solə; le passeggiate tra i quadri nei musei, quelli di fotografia e quelli in cui si spiegano la vita e la morte, le gallerie d’arte dietro ogni angolo, quei sex shop con il piacere delle donne al centro; i clacson che non suonano mai, mai al semaforo, mai dietro il camion della spazzatura o dei traslochi; la postina che lascia sempre i tuoi pacchi dal vicino quando non trova gente in casa; l’odore degli abeti e dei fiori, le dune e la foresta, la neve che cade e rimane per giorni, la pioggia sottile con il sole, in primavera i ciliegi, d’estate pappagalli verdi e corpi che si scaldano nudi sui prati; le persone che fischiettano mentre camminano; il rap da Bijlmer e le luci sui ponti, la spontaneità nel vestire, il telefonino che si guarda meno che in Italia; i tempi di attesa in una conversazione, aspettare che l’altra persona finisca di parlare prima di reagire; le bandiere arcobaleno progressive dai balconi, togliersi le scarpe all’ingresso; la signora olandese che corregge la pronuncia delle mie u mentre beviamo il tè nel suo soggiorno e parliamo di nuraghes e di coste rubate in Sardegna; i sorrisi di complicità in bicicletta per una precedenza non prevista o un adesivo che dice “From the river to the sea Palestina will be free”; il sapore del tempeh kering, del mango sticky rice e del liquore del frutto di Marula; l’accoglienza in una famiglia che non è la tua, l’odore della rugiada e il tifo sui campi di calcio femminile la mattina prestissimo; usare la bicicletta per andare in qualsiasi posto, per fare la spesa e per tornare tardi la sera dopo aver bevuto; le passeggiate con le amiche nella nebbia, le scritte antirazziste sui muri, lo sguardo di stupore e contentezza per un dialogo in olandese in un paese in cui basta l’inglese; la consapevolezza che non sia mai troppo tardi e che nella vita si impara tutto; il tempo e lo spazio per ascoltarmi e occuparmi di me e di me in relazione al mondo…
Nella mia testa si accavallano i suoni, le voci, la puzza e i profumi, tutte le emozioni che ho vissuto in questi ultimi cinque anni. Mi sembra sia passato un istante, e adesso che sono sono tornatə a vivere in Sardegna da qualche giorno, mi sento frastornata, confusə, eccitata, dopo tutto questo. C’è agitazione, una certa paura, qualcosa che somiglia a un sogno a occhi aperti da cui non mi sveglio, un’aria fresca e un paesaggio che non riconosco e che però mi tranquillizza, come se finalmente le due terre che amo si fossero fuse dentro di me senza lasciarmi a pezzi, senza più darmi l’affanno di rincorrere qualcosa che non so cosa sia, nella serena certezza che nella vita c’è spazio per tutto e che nulla si perde.
Mi sono chiesta tante volte se la mia esperienza sarebbe stata diversa se io non avessi avuto l’aspetto che ho, se non fossi stata bianca o se i miei genitori avessero perso il lavoro e io non avessi mai avuto la possibilità di studiare, se fossi stata una donna trans congolese o un uomo cinese con una disabilità motoria. Ed è così, non sarebbe stato lo stesso. Forse la mia esperienza sarebbe stata addirittura più bella, ma di certo il mondo non non mi avrebbe accolto allo stesso modo.
Forse perché, per esempio, se per spostarmi avessi avuto bisogno di una sedia a rotelle, sarebbe stato difficilissimo trovare spazio sui marciapiede invasi dalle biciclette parcheggiate senza cura fuori dai pub; o se fossi nata in Suriname, per esempio, mi avrebbero ferito ogni anno i tanti olandesi bianchi che tra novembre e dicembre sfogano il proprio suprematismo bianco truccandosi la faccia con un colore scuro e il rossetto rosso, chiamando tradizionale una festa per bambini che ruota intorno alla venerazione di un uomo bianco e generoso e allo scherno dei suoi schiavi neri, stupidi e pigri; ancora, se non avessi avuto i soldi per pagare un affitto, avrei assistito al capitalismo rampante che inquina tutto, dal fumo di marijuana al cibo sano fino al sesso, mentre avrei provato invano a dormire di fronte a negozi scintillanti su una panchina divisa da un gelido passamano; se fossi stata un po’ più sfortunata, anche nei Paesi Bassi, come per le vie di Roma o di Minneapolis, la polizia avrebbe potuto uccidermi senza le minime conseguenze; se fossi stata un’insegnante sarei stata sottopagata nello stesso posto in cui le grandi multinazionali gongolano per gli sgravi fiscali; anche qui, se il mio cognome fosse stato arabo, il governo avrebbe truffato la mia famiglia nell’assegnare i sussidi e alle elezioni avrebbe vinto di nuovo, e se fossi stato un uomo nigeriano gay e avessi avuto l’AIDS, in televisione avrei ascoltato un politico fascista minimizzare impunemente il dolore della mia esperienza perché la mia non sarebbe stata una malattia da blanke hetero mannen; se non avessi avuto i soldi per pagarmi il dottore, in un sistema sanitario privato, dopo due anni di pandemia e le terapie intensive piene, forse avrei fatto a meno di curarmi.
Ho vissuto tanto. Torno più sfaccettata e più felice di quando sono partita. Forse, ho imparato a dire le cose nel modo in cui le penso, senza paura di ferire le persone ma anche senza alzare troppo la voce; ho imparato a non sentirmi stupidə o inopportuna nel salutare la gente che incrocia il mio sguardo per strada, anche se non l’ho mai vista prima; a fidarmi un po’ di più delle mie capacità che ancora non conosco, a lasciare che i miei peli crescano se mi va, a sentirmi persona nel mondo che è anche il mio mondo, a essere umile e a riconoscere l’errore di ferire qualcunə per ignoranza, ad accettare di sbagliare e di imparare sempre; torno più consapevole dei privilegi che incarno e delle discriminazioni che vivo.
Mi sento fortunata e fragile: ho un tetto sopra la testa, ho da mangiare e l’enorme affetto di chi mi circonda, eppure so che le cose possono cambiare in un attimo, anche in questo lato del mondo in cui ci permettiamo di lamentarci di fronte alle medicine, e quindi oggi voglio vivere pienamente. Mi sento grata per quella sensazione magica e spaventosa dell’inizio, quando non conoscevo le strade e facevo infiniti giri in tondo. Ringrazio per l’acqua che riflette, per l’aria fresca, per l’intimità del lavoro che ho cercato e trovato, per la connessione e la conoscenza di me che le persone che mi hanno disegnato per anni hanno acquisito, tanto da riconoscere quando qualcosa è cambiato. Ringrazio per i ricordi che ho lasciato nella memoria di qualcuno, per la curiosità, per gli abbracci, per i quadri appesi nelle case olandesi con il mio sguardo disegnato dentro, per tutti quei “ci vediamo in Sardegna”, ringrazio perché mi sono sentita a casa e perché adesso ricomincio dalla mia terra portandomi dietro tutto questo. Ho ricevuto tanto calore e lo porterò con me per sempre. Ora sono qui, grazie all’amore che mi ha spinto a non avere paura di cambiare di nuovo.
Questo è un arrivederci, wees lief, tot de volgende keer, a si biri!