Come non imparare la lingua inglese nelle scuole italiane

di Marina Scroccu

La società internazionale EF, che si occupa di scambi culturali e formazione linguistica, pubblica annualmente l’indice di conoscenza dell’inglese EF (EF EPI), col quale si misurano le competenze di inglese fra gli adulti di numerosi paesi del mondo. Il punteggio dell’Italia, in questa classifica, è molto basso: trentaseiesima al mondo – subito dopo la Spagna e poco dopo la Francia – e ventiseiesima in Europa. Stando a quanto riportato sul sito di EF, la situazione europea sta migliorando, ma la Spagna e l’Italia “sono ancora indietro rispetto al resto dell’UE”, mentre la Francia ha mostrato dei miglioramenti negli ultimi due anni. Interessante anche la correlazione effettuata dallo studio di EF tra l’alto livello di conoscenza dell’inglese e l’apertura e l’equità di un Paese: “Le società aperte guardano all’esterno. Sono luoghi più equilibrati, più equi. L’inglese, essendo un mezzo di connettività internazionale, si correla bene con le misure sia di uguaglianza che di impegno con il mondo esterno”.

Tuttavia la posizione Italiana non mi stupisce, e credo non possa stupire nessuno tra chi legge. Ovunque si parla dell’importanza dell’internazionalizzazione, per la quale è strettamente necessario l’utilizzo di una lingua comune, che unisca e colmi le distanze. Ciò che forse non è ben chiaro, in Italia, è che per apprendere tale lingua comune è indispensabile studiare, e per studiare in modo utile ed efficace è indispensabile la presenza di persone altamente specializzate nel settore: i docenti di inglese. Da laureata in lingue, e in particolare in inglese, posso affermare per esperienza che il ruolo dell’insegnante di lingue straniere viene di frequente sminuito e marginalizzato, come se non fosse poi così importante avere un’adeguata preparazione in materia, perché troppo spesso si pensa che chiunque sappia parlare una lingua sia automaticamente in grado di insegnarla. Oppure semplicemente si pensa che un alto grado di specializzazione in materia non sia per niente necessario. Questo è il caso, per esempio, dell’insegnamento dell’inglese nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, per cui tra i titoli richiesti non compare la laurea in Lingue straniere, ma solo quella in Scienze della formazione primaria o il Diploma Magistrale (o di Liceo Socio-Psico-Pedagogico o sperimentale a indirizzo linguistico) conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002, accompagnati dal superamento di una prova di lingua inglese.

Al contrario, per l’accesso di unə laureatə in lingue all’insegnamento nella scuola dell’infanzia o nella scuola primaria, è indispensabile la laurea in Scienze della formazione primaria, e non è possibile perfezionare la propria preparazione semplicemente sostenendo degli esami integrativi. Data la comprovata rapidità dell’acquisizione linguistica nei primi anni di vita, la scelta più efficace sarebbe affidare l’insegnamento dell’inglese nella scuola dell’infanzia e primaria a persone altamente qualificate, per formare nel modo più corretto i bambini e le bambine nell’ambito della lingua straniera, e porre solide basi per lo studio futuro. Ciò che accade troppo spesso, invece, è che l’insegnamento dell’inglese viene affidato a persone che ne possiedono una conoscenza parziale e superficiale, col risultato che forse a scuola si potrà imparare qualche parola, ma non si stanno gettando le basi per un reale apprendimento della lingua. La/il docente dovrebbe padroneggiare completamente la materia, anche per evitare di trasmettere contenuti erronei o inadeguati che possono consolidarsi nel tempo.

Questo si ripercuote sull’intero percorso scolastico di bambine e bambini, e sicuramente non agevola l’apprendimento dell’inglese nella scuola secondaria. Forse ci si dimentica che chi si laurea in Lingue straniere svolge un percorso nel quale inevitabilmente studia, insieme alle lingue, la didattica delle stesse, dunque come insegnarle. A tal proposito vorrei sottolineare la nuova tendenza italiana a ricercare espressamente persone di madrelingua inglese per svariati progetti di insegnamento della lingua – nel settore pubblico così come in quello privato. La meritocrazia è un concetto perlopiù sconosciuto, mentre la provenienza geografica sembra essere un fattore di primaria importanza. In un lungo periodo di disoccupazione post laurea, mi sono ritrovata innumerevoli volte esclusa a priori dalla possibilità di lavorare come docente della materia che ho studiato per cinque anni all’università, per il semplice fatto di non possedere il requisito di essere madrelingua inglese. Verrebbe spontaneo domandare a qualunque persona di madrelingua italiana se si ritenga in grado di insegnare l’italiano come lingua straniera.

La svalutazione dello studio linguistico purtroppo è generalizzata: si pensa che sia una cosa semplice, fattibile per tutti, che non richieda un particolare impegno. Troppo spesso mi è capitato di imbattermi in persone che, alla domanda “perché hai deciso di studiare lingue?” hanno risposto “perché non sapevo cos’altro fare, e poi è facile”.

Non credo che esistano indirizzi di studio più semplici e più complessi, che le materie umanistiche siano più facili delle materie scientifiche, che ci siano studi che richiedono meno impegno di altri; al contrario, credo che ogni materia di studio abbia pari dignità delle altre, ciò che fa la differenza è l’importanza che le viene attribuita, la serietà, l’impegno e la passione di chi studia, l’interesse reale a possedere una formazione completa nel proprio ambito di specializzazione. E, ovviamente, il riconoscimento sociale di tali fattori. Forse, se si osservassero questi presupposti, l’Italia non si troverebbe agli ultimi posti dell’indice di conoscenza dell’inglese EF.

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